Parliamo e non ci capiamo

Parliamo e non ci capiamo

Mi ha chiamato un’amica, dopo un battibecco con il marito.
Le è parso che lui abbia fatto delle valutazioni negative su di lei, su dei punti in cui si sente vulnerabile e come risultato lei si è sentita offesa.
Spesso nelle relazioni di coppia si parla e non ci si capisce. Ognuno pensa, parla, ma le cose possono essere recepite in un altro modo dal ricevente e  andare ad alterare un equilibrio preesistente. Perché?
In una relazione, ciascuno dei due partner ha valori, stili ed aspettative personali sia riconosciute, sia inconsapevoli, che vanno conciliati con l’altro per rendere possibile la vita in comune. Deve esserci una negoziazione in cui ognuno perde un po’ di autonomia per andare incontro all’altro, ed acquisire il valore della relazione, dello stare insieme. Il risultato è un particolare modo di stare insieme, proprio di ogni coppia, con modi di agire e vedere il mondo che, oltre a fissare regole condivise su come ci si deve comportare all’interno della coppia, determineranno anche il modo di sentire se stesso e l’altro.
Ogni volta che si crea una discrepanza, la coppia dovrà evolvere e andare incontro ad un nuovo equilibrio, per soddisfare le richieste della nuova situazione.
Detta così sembra una sequenza semplice, lineare e indolore, ma non lo è.
Dopo l’iniziale innamoramento, scatta la fase in cui vengono al pettine vari nodi, personali, dalla propria famiglia di origine e che si creano all’interno della coppia. All’inizio non si comprende cosa sta accadendo, si resta solo feriti e con un vago senso di tradimento per le aspettative deluse.
Torniamo alla mia amica. Cosa le ho detto?
Da un lato occorre capire perché ciò che lui le ha detto le ha fatto così male, e dall’altro se lui voleva fermarsi a quella valutazione, o arrivare ad altri argomenti e litigare su altro. Può essere difficile trovare un modo per discutere di qualcosa che fa male, e spesso si preferisce scaricare la tensione su qualcosa che apparentemente è più lieve, ma allo stesso tempo comunica che c’è un disagio.
Se c’è qualcosa di più profondo, meglio toccare quello. E’ più difficile e va fatto con calma e senza farsi fuorviare dalle emozioni anche se la situazione è spinosa e fa tanto male. Arrabbiarsi e litigare su altro è solo una perdita di tempo e di energie, una distrazione che ci fa girare intorno al vero nucleo del problema, diluendo e prolungando il dolore.
Può capitare che il cambiamento dell’altro, reale o percepito, può essere vissuto come causa o effetto del proprio modo di fare e generare una ferita. In questo frangente la soluzione più costruttiva può essere fermarsi un attimo a riflettere per comprendere cosa accade.
Spesso l’inciampo dell’altro nella sua storia personale viene visto come esclusivamente dedicato a sé, come atto che in un certo modo insulta la propria persona o la relazione sentimentale, ma non è detto che sia così. Alcune volte (più spesso di quanto non si creda) queste situazioni non originano dalla relazione con il partner, ma all’interno della relazione è possibile trovare il sostegno per rialzarsi da quell’inciampo.
La coppia, come qualsiasi altra relazione, non è ferma e impermeabile, è in continua trasformazione, perché continuiamo a crescere e cambiare con il mondo che ci circonda (per fortuna o purtroppo, dipende dalle situazioni). L’instabilità guida i due partners verso un nuovo funzionamento in cui aumenta (si spera) la capacità di gestire le situazioni e la complessità – non complicazione! – della relazione.
A volte, comunque, non si riesce a uscire dal circolo vizioso dei non detti e delle emozioni difficili da tenere a bada, è allora che uno psicoterapeuta può venire in aiuto.
Come già detto, ogni coppia ha una serie di schemi che convalidano e sostengono la sua struttura. Qualsiasi cambiamento nella struttura andrà a cambiare la visione del mondo e viceversa qualsiasi cambiamento nella visione del mondo andrà a trasformare la struttura della coppia.
Quando c’è un conflitto, un disagio, un problema, può darsi che c’è solo una (angusta) percezione della realtà, quasi non ve ne fossero altre.
Di solito da un terapeuta ci si aspetta di portare il nostro disagio per vederci restituito il normale funzionamento precedente. Il terapeuta invece creerà nuovi mondi e offrirà una nuova realtà. Userà dati reali, ma contribuirà alla creazione di un nuovo assetto, più funzionale e aperto a nuovi cambiamenti e ulteriori, fisiologiche ristrutturazioni.
Periodi di equilibrio e adattamento si alternano ad altri di squilibrio, è normale, funziona così, non possiamo fermare la nostra vita a momenti bellissimi e perfetti come fotografie… ma possiamo fare tante fotografie mentre continuiamo a cambiare posizioni e panorami.

BIBLIOGRAFIA
S. Minuchin, H. C. Fishman, Guida alle tecniche della terapia della famiglia, Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1982.

Cambiare casa, punti di vista e panorami…

Cambiare casa, punti di vista e panorami…

Capita a tutti. Prima o poi arriva una situazione che ci mette di fronte a qualcosa di inatteso e stressante e la voglia di sedersi e di non fare nulla ci assale prepotente.

Quest’anno io, mio marito, mio figlio e le nostre due gatte… abbiamo cambiato casa. Dramma.

Avremmo voluto restare, ma proprio non era possibile, e gli step attraverso cui passare non sono stati facili: la ricerca della casa (in quale quartiere? con quali caratteristiche? cosa possiamo permetterci?), del mutuo (con quale banca? quale tasso?) , il trasloco (preventivi e cosa ci portiamo? cosa ci lasciamo indietro? cosa vorremmo portare a casa nuova, ma non avremo lo spazio?)… All’inizio c’erano solo la rabbia e l’impotenza di non poter restare a casa vecchia, e la tendenza a rilevare solo ciò che non andava in quelle che andavamo a vedere. Insomma. Mi ero seduta e guardavo il mondo che mi faceva il dispetto, l’oltraggio, di tutta quella situazione faticosa e ingarbugliata.
Perché in quella casa c’è stato tanto investimento emotivo?
Quella antecedente era decisamente piccola, poco luminosa e in un quartiere che non ho amato. Ed in quella che adesso dovevo lasciare ho cominciato a rivivere il piacere dell’ospitalità, dell’essere centrale ma non troppo, dell’uscire a fare due passi, e sono arrivate nell’ordine le gatte e mio figlio. Ho accumulato tanti ricordi piacevoli. E cambiare casa mi sembrava un cambiamento anche rispetto a quelle situazioni. Come se in un’altra casa non avessero potuto riaccadere cose belle.
Ma sono stata fortunata. La casa vecchia ha iniziato a congedarci con tutta una serie di piccole magagne che appesantivano ulteriormente la gestione del quotidiano. È stata una fortuna, perché ho iniziato a vedere il cambiamento in chiave positiva, come un miglioramento della nostra condizione, piuttosto che come un ostacolo alla nostra serenità.

Ho effettuato quello che in terapia sarebbe stata definita una ‘ristrutturazione’. In quel contesto sarebbe stato il terapeuta a farmi prendere in considerazione una prospettiva diversa e più costruttiva, in questo caso è stata solo una concatenazione (s)fortunata di eventi. Detta così sembra una cosa semplice: hai un problema, e un terapeuta apparentemente pieno di umorismo ti propone di vedere le cose in modo rovesciato: “è un’occasione!”… quante volte, nel dirlo, ho letto sui miei pazienti un’espressione perplessa.

Eppure vedere le cose in una nuova prospettiva offre tanto di più. Offre l’energia e la voglia di mettersi in gioco, invece di subire passivamente gli eventi. Permette di pensare in un modo diverso e, perché no, trovare nuovi stati d’animo e soluzioni prima neanche sospettate.

Mettiamoci una lente d’ingrandimento, su questo, perché è importante: cosa  accade quando si costruisce, destruttura e ricostruisce un pensiero, una prospettiva? Come altre volte mi affido all’etimologia.

Costruire significa mettere insieme, assemblare diversi elementi in modo da dar loro un certo senso. Positivo o Negativo. E qui occorre far attenzione, perché anche voler restare per forza attaccati a qualcosa di vissuto come positivo, può creare problemi. Siamo in continuo divenire, e non ci si può fermare quando la vita ci dice che dobbiamo muoverci. Quel nostro fermarci è deleterio. È restare attaccati al passato e perdersi le opportunità che ci riservano il presente ed il futuro.

Vediamo il passo successivo. Destrutturare non vuol dire distruggere, ma smontare, scomporre la configurazione esistita fino a quel momento ed isolarne i vari elementi. Solo così possiamo valutare quali di quegli elementi è giusto, opportuno, tenere ancora nella propria vita, e quali mettere da parte, perché non ci servono più e ci impediscono di crescere ulteriormente.

Infine, ristrutturare, in quest’ottica, vuol dire creare un nuovo ordine con gli elementi (vecchi e nuovi) che abbiamo in mano, dar loro un nuovo significato che ci permette di rimetterci in gioco (quando il circolo è gestito in modo virtuoso).

“La ristrutturazione non cambia i fatti concreti ma il significato che il soggetto attribuisce alla situazione – o per dirla con i termini che Epitteto usò fin dal primo secolo d. C. : ‘Non sono le cose in se stesse a preoccuparci, ma le opinioni che ci facciamo di esse’.”*

 Nel mio caso, abbiamo trovato una casa simile alla vecchia nella configurazione delle stanze, siamo rimasti nello stesso quartiere, ci siamo avvicinati alla scuola di mio figlio ed al parco, abbiamo guadagnato una splendida vista sugli alberi, il cielo stellato di notte e le cicale nel sottofondo dei pranzi estivi. E scusate se è poco.

*P. Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fish, Change, Editrice Astrolabio, 1974

L’insostenibile pesantezza dell’esser manipolato

L’insostenibile pesantezza dell’esser manipolato

Le relazioni umane sono abbastanza semplici.

Nel bene come nel male le ritrovi uguali in un’aula di scuola materna o nell’etere per gestire un gruppo di professionisti.

Mi capita spesso di avere la fortuna di incappare nelle stesse dinamiche che ha mio figlio a scuola, ovviamente in altri contesti, e ci rifletto su. Da sola, coi colleghi o in altre situazioni informali.

Parlando con un’amica, è emerso che uno degli aspetti fondamentali, e più dolorosi, è che chi ci usa, spesso lo fa in nome dell’amicizia che ci lega. “Siamo amici, quindi puoi bere questo amaro calice per me (mentre io, ben inteso, mi prendo una tisana  calda coi biscottini)?”

Ma forse sto correndo troppo…facciamo un passo indietro.

Il manipolatore ha un conflitto o un bisogno, e cosa fa? Lo gestisce da solo? No, purtroppo cerca di usare gli altri per risolverlo. Il suo obiettivo è sottomettere l’altro, fornendogli informazioni contraddittorie e incomplete, che lo inducono a dubitare di sé (forse non sono come credevo di essere), della propria percezione (forse non ho visto o sentito bene) e della propria memoria (forse non ricordo bene). La vittima resta confusa, non capisce più cosa accade, né dentro, né fuori di sé.

Pian piano inizia a sentirsi e viversi male, a pensare che le sue capacità siano sbagliate, inappropriate o insufficienti, l’autostima precipita e si sente insicuro e vulnerabile.

Perchè accade questo? Perché così il manipolatore può risolvere il suo problema continuando a sentire di avere potere e controllo. Il suo potere non deriva da qualcosa che lo eleva, ma dal sotterrare l’altro.

E ancora, perchè la vittima abbocca? Cosa la predispone a ricevere l’amo? Perché, attenzione, il manipolatore è tale di fondo, ma non butta l’amo verso tutti.

Non siamo tutti uguali, abbiamo caratteri, educazioni e concezioni diverse, ed ognuno reagisce in modo personale a quanto ci propone la vita: ciò che atterrisce una persona, può passare del tutto inosservato ad un’altra. Detto in termini spicci, cascarci non è sintomo di stupidità, ma di predisposizione verso certe dinamiche.

Osserviamo meglio questa disposizione interna, perché ben o male la vittima elettiva della manipolazione ha 3 caratteristiche fondamentali:
– è rigida, tende a vedere il mondo bianco o nero. Non riesce a pensare che esistono diverse prospettive da cui vedere la stessa situazione e che quella che gli propone il manipolatore non è che una delle tante possibili, e può essere ben diversa dalla realtà delle cose;
– è una persona che cerca l’approvazione degli altri, dipende dal loro giudizio e se questo non è buono, fa di tutto per trasformarlo;
– cerca affetto, e tende ad idealizzare l’altro, visto come leader o competente in qualcosa che a lei sembra mancare.

Perché tanto coinvolgimento col manipolatore? Perché visto che l’altro ci sembra migliore in qualcosa, si vorrebbe essere come lui o almeno nelle sue grazie. Ma se ci rimanda un’immagine distorta di noi stessi, pur di cambiare la rappresentazione che l’altro ci propone, siamo disposti a tutto, più o meno consapevolmente… anche a bere il già citato calice amaro.

Cosa possiamo fare per uscire da questo ingranaggio che ci stritola?
– Parlarne, parlare di come ci si sente con qualcun altro. Il confronto spesso è fondamentale, quando c’è una manipolazione. Sono io fuori del mondo, ho capito o mi sono espressa male, oppure è l’altro che in modo più o meno consapevole mi usa per i suoi fini?
– Mettere da parte il senso di colpa e di inadeguatezza per avere inciampato in questa dinamica.

In seguito, prendendo spunto da ciò che predispone ad essere manipolati, cambiare tendenza e
– uscire dalla nostra rigidità, aprirci a nuove prospettive, per tollerare meglio l’immagine distorta che l’altro ci rimanda. Quello è solo uno dei tanti punti di vista da cui possiamo essere guardati e valutati.
– guardarsi meglio dentro, fare un’attenta analisi di ciò che siamo e ciò che facciamo, in modo da iniziare ad acquisire una nuova concezione di noi stessi, che non dipenda dai giudizi esterni.
– valutare le risorse proprie ed altrui come altrettanto lecite e degne di esistere, per evitare di idealizzare l’altro che in definitiva ha solo capacità diverse dalle proprie, non per forza migliori.

Infine, ricordare sempre che il nostro modo di essere e relazionarci agli altri sono unici, possono andare bene così come sono, ma per evitare di incappare in situazioni spiacevoli forse è meglio usare degli accorgimenti.

Ognuno ha il suo particolare modo di camminare, non è un problema. Ma se cammino per strada mentre piove e per terra ci sono tante foglie scivolose, forse è meglio stare attenta e cambiare un minimo la mia andatura per evitare di fare un tonfo.

Cespugli e caminetti

Cespugli e caminetti

Mi guardo intorno e vedo che spesso le persone restano ferite per situazioni che molti altri archivierebbero come cose da poco conto. Quando ci si aspetta che l’altro, un altro per noi importante, ci sia, ci sostenga, tenga fede ad un nostro segreto, e ciò non accade, ecco che arriva l’amaro boccone della delusione e la sensazione di essere stati traditi.

Il tradimento è spesso associato alle relazioni sentimentali, ma nella vita possiamo sperimentarlo in qualsiasi ambito: può accadere con un familiare, un amico, un collega o chiunque altro con cui si sia creato un rapporto di fiducia.

Da bambini è normale, anzi auspicabile, che ci sia una totale fiducia nei confronti degli adulti che si occupano di loro e/o nei confronti del mondo. Senza quella fiducia non può neanche esserci l’esplorazione di ciò che lo circonda, per scoprire chi sono e dove sono. Poi crescendo, ci si imbatte in attriti, scontri, delusioni e ognuno a modo suo impara a stare nel mondo e prendere le misure per vivere ed evitare altri dolori.

Le reazioni sono varie e diverse per ognuno, anche in base al periodo che si attraversa: a volte si sarà disposti a cercare un confronto costruttivo, altre più inclini a meditar vendetta, o a ispessire la corazza che apparentemente ci separa dagli altri, coltivando un cinismo per cui nulla al mondo vale la nostra fiducia o, peggio ancora, cercando di negare anche a se stessi il valore dei legami con altri esseri umani. L’amore, l’amicizia, la lealtà diventano solo illusioni e ogni personale esperienza perde toni più elevati: meglio restare coi piedi ben piantati per terra, per non soffrire di nuovo. Se questo può sembrare rassicurante, da un altro lato impedisce di guardare il mondo da altre prospettive e volare via dal dolore stagnante.

Altre due possibili soluzioni possono essere negare quanto è accaduto cercando di far quadrare ugualmente qualcosa che tanto quadrato non è più, e costruire rapporti apparentemente perfetti in cui tutto deve essere preciso e calcolato, controllato. Peccato che tra esseri umani, più si controlla, meno spazio resta per le emozioni e la condivisione spontanea del proprio vissuto, vero tesoro delle relazioni.

Ma quindi, non c’è niente da fare? Il tradimento e la delusione delle aspettative sono del tutto negativi? Si può solo cercare di sopravvivere nonostante tutto?

E’ umano e fisiologico restare scottati lì per lì, isolarsi e cercare un cespuglio in cui leccarsi le ferite, il problema sta nel restare impigliati in questa prima reazione.

Può servire chiarirsi con chi ha tradito? Ma chi è disposto ad ascoltare le ragioni di chi lo ha ferito? E siamo sicuri che tradito e traditore riuscirebbero a parlare la stessa lingua? E’ possibile che ciò che è fondamentale per uno sia assolutamente inutile per un altro, e che una situazione che muove le corde interiori di uno, passi del tutto inosservata all’altro, suscitando ulteriore sconforto nel tradito e fastidio nel traditore, che deve continuare a motivare scelte per lui innocue.

C’è un altro modo per affrontare tutto: ANDARE OLTRE, senza restare ancorati alle razionalizzazioni o alle emozioni negative. Non è un perdonare o un far finta di nulla. Non vuol dire non affrontare e lasciar perdere ‘perché tanto non c’è niente da fare’, anzi. Vuol dire passare attraverso quella sofferenza, capire cosa è accaduto e dove si è creata la ferita, guardarla bene, toccarla e usarla come trampolino per continuare a crescere.

Non c’è buonismo in tutto ciò, è solo una strategia più funzionale che permette di non avvelenarsi la vita. Quando il veleno continua a covare dentro, l’unico effetto è di avvelenare la vita che lo contiene.

E non è tutto. Col tradimento si esce dall’illusione e si entra nella realtà, si esce dall’infanzia incantata, dall’eden ultraterreno, dal mondo perfetto in cui non può accedere nulla di male, e si entra nel mondo degli esseri umani, esposti alla sofferenza solo perché finalmente capaci di sentire emozioni e sentirsi legati agli altri.

Ci si nasconde nel cespuglio per leccarsi le ferite, ma se ne può uscire guariti ed usare i rami secchi dell’esperienza passata come legna da ardere, per scaldare ed illuminare nuovamente il sentiero della vita.

Bigliografia
J. Hillman, Puer Aeternus, 1964, Edizioni Adelphi