La felicità dipende dai desideri?

La felicità dipende dai desideri?

Mesi fa ho seguito un corso di formazione professionale in cui si parlava dell’importanza del desiderio come motivazione che ci spinge verso i grandi obiettivi della nostra vita. Ho pensato che questo desiderio fosse molto in relazione con la felicità: col realizzare qualcosa, raggiungere un traguardo (anche solo riuscire a portare avanti una dieta dimagrante con successo) e di conseguenza sentirsi soddisfatti della propria vita.

Visto che l’argomento mi piaceva, mi sono messa in azione: ho deciso di scrivere un articolo sul desiderare e sulla felicità. Mi sono messa lì il primo giorno, il secondo, il terzo…. è passata qualche settimana ma niente… Non riuscivo a scrivere niente, eppure era così facile…Nella mia testa il discorso c’era, ma nel momento in cui prendevo carta e penna, ecco che spariva tutto. Ho dimenticato interi discorsi, collegamenti…tutto. Ho provato anche a registrarmi con il cellulare o ad usare convertitori automatici…niente di niente. Eppure ricordavo tante altre cose, solo sul versante ‘desiderare e felicità’ avevo il nulla appena cercavo di metterlo nero su bianco.

Piano piano ho iniziato a rimandare la stesura dell’articolo, avevo altre priorità, altre cose da fare e perfino caricare la lavatrice (e non sono proprio la massaia della porta accanto) era qualcosa di impellente che mi portava via da quel lavoro. Non capivo: eppure ho sempre avuto dei desideri. Una lunga lista di desideri semplici, leciti, ma anche più complessi e con diversi step da mettere a punto per la loro realizzazione… nulla di sconvolgente, nulla di diverso rispetto a tante altre persone.

Mi sono fermata un attimo e ho capito che c’erano delle resistenze. Questo tema, bellissimo, mi smuoveva qualcosa dentro. Ho preso in mano alcuni miei desideri… li ho guardati, valutati, giudicati (sì, ho anche emesso giudizi su di loro)… forse questi desideri non andavano bene per la mia vita, forse tutto sommato avrei dovuto accontentarmi di ciò che ho…dopotutto, che male c’è ad accontentarsi? Ma dentro di me qualcosa scalpitava… “chè, sei matta? Passi tutto il tempo a dire ai tuoi pazienti che devono guardarsi dentro, far emergere ciò che sono e vogliono realmente, e poi, proprio tu butti la spugna? Non sia mai!”

Piano piano, ho deciso di osservare ciò che accadeva, dentro e fuori di me. Volevo capire quale fosse la corda toccata da questa situazione. Non è stato semplice, ci ho messo un po’ e ne ho anche parlato con qualcuno, prendendo nota di ciò che accadeva nell’interazione e dentro di me quando provavo a parlare di un mio desiderio con altre persone.

La corda era la paura. Esprimere un desiderio fa emergere la mia paura.

La paura di restar delusa dalla mancata realizzazione di ciò che voglio.

La paura delle conseguenze operative: sarò in grado di gestire ciò che accadrà dopo? E se non sono all’altezza, se qualcosa va storto, se rovino tutto?

La paura del giudizio, di ciò che potrebbero pensare gli altri: che magari ho fatto il passo più lungo della gamba, che sono arrogante, che sono incosciente, che sono ridicola nel pensare che potrei realizzare il mio desiderio…

Tutto questo solo nel pensare ad un eventuale desiderio. Ed ho capito perché tante persone li prendono – i propri desideri – e non solo li mettono in un cassetto, ma poi questo lo chiudono a doppia mandata e buttano via la chiave.

Paradossalmente sembra che la felicità più la si cerca, meno la si trova…e ovviamente più una persona non si pone il problema sull’essere o non essere felice, migliori sono le sue possibilità di esserlo, lo dicono le ricerche. È un po’ una profezia che si auto-avvera: più cerchi di evitare che accada qualcosa, più le tue scelte, progressivamente, ti spingono verso ciò che tanto fuggi.

Mi sono chiesta cosa attivasse la mia paura. Era l’incertezza, non sapere come sarebbe andata a finire, non sapere se in caso di caduta il mio trapezista interiore avrebbe trovato una rete ad accoglierlo.

Annamaria Testa in un suo mini-saggio sull’argomento suggerisce che questo impasse si può affrontare in tanti modi, il migliore dei quali è accettare l’incertezza: avere una flessibilità adattiva e cercare di tirar fuori qualcosa di positivo anche dalle situazioni negative.

Ok. cosa potevo trarne io? Come prima cosa, ho svincolato la felicità dai desideri. E poi ho capito che è una specie di condizione dell’anima”, un modo di vivere e vedere la vita, non qualcosa che si raggiunge ad un certo punto, dopo aver realizzato qualcosa.

Va bene avere dei desideri da realizzare, mettere delle azioni in tal senso, guardarsi dentro e chiedersi cosa rappresenta davvero quell’obiettivo per noi e cosa possiamo fare per gestire eventuali feedback negativi ‘dall’universo’ (quando sembra che quella cosa proprio non si realizzerà).

Ma la felicità, forse, è lo stato d’animo che sperimentiamo a prescindere da ciò che va e ciò che non va. È qualcosa che costruiamo giorno per giorno, un passo alla volta e cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. O, come mi hanno fatto notare, cercando di dare il massimo con qualunque cosa ci ritroviamo nel bicchiere.

E questa scoperta non mi è parsa una cosetta da niente.

Bibliografia

Annamaria Testa, Il coltellino svizzero, Garzanti, Milano 2020

Dove sono io? E gli altri?

Dove sono io? E gli altri?

Gli ultimi mesi, citando un film a me caro, sono stati prodighi di emozioni.

Finora ho sempre lavorato molto ‘da sola’ e più di 6 mesi fa ho iniziato una collaborazione con una società di consulenza (https://www.bottegafilosofica.net/ ). Mi piaceva la filosofia che respiravo in quella società, volevo far parte di quel team e decisamente volevo sfidarmi su qualcosa di nuovo, quindi quando mi è stato chiesto se ero disponibile per dei moduli di formazione fuori Roma, ho detto subito di sì, senza pensare, perché se avessi pensato sarebbe salita un po’ di fifa e avrei detto di no.

I moduli di formazione sarebbero stati a Bolzano, a 650km da casa, ed io non mi spostavo per lavoro dalla provincia di Roma da prima di avere mio figlio che adesso sta finendo la terza elementare… Ho detto di sì e già tornando a casa ero in modalità “mamma mia, ma come m’è venuto in mente?!”. Sono passati un po’ di mesi ed una parte di me era disperata: sotto sotto pregavo che la cosa non andasse in porto, che nonostante tutto tra me e l’Alto Adige restassero tutti quei km…io sarei anche andata, ma ops… purtroppo i corsi non erano partiti. Un’altra parte di me, invece, era contenta all’idea di passare giornate intere lontana da casa e sperimentarmi di nuovo in modalità solo professionale, togliendo momentaneamente i ruoli operativi di moglie e mamma.

Beh, i corsi sono stati posticipati di un paio di mesi, ma alla fine è arrivato il momento di partire.

Tralascio il pathos della mattina della partenza per decenza, posso solo dire che quando ho salutato marito e figlio e mi sono avviata da sola verso il treno…mi sono sentita leggera, come se un orologio dentro di me fosse tornato indietro nel tempo, a quando partivo senza grandi remore e senza nessuno che attendesse il mio ritorno a casa.

In tutto ciò, alla mia lontananza fisica da casa si è unita un’altra dinamica inerente Bolzano, sempre su questo tema. In un corso di formazione mi sono occupata dell’orientamento professionale delle partecipanti.

Appena mi hanno visto, ognuna in modo individuale, ho percepito una specie di barriera. “Perchè sono qui? Perché devo parlare con una psicologa? Non c’è nulla che non vada in me”. Non per tutte, per carità, ma per 2/3 di loro è andata così. All’inizio sembravano sedute su sedie di spine e attendevano che quell’ora passasse il più rapidamente possibile. Alcune guardavano costantemente altrove, altre mi dicevano che quel colloquio per loro era inutile, altre ancora apparentemente non la smettevano di parlare-parlare-parlare ma avevo la netta sensazione che non mi stessero raccontando nulla di sé: quelle parole avevano solo la funzione di riempire lo spazio (ed il tempo) tra me e loro, mettendo una barriera. Un muro di parole.

Le distanze relazionali, inutile dirlo, sono il mio pane quotidiano. Sono croce e delizia nelle relazioni umane e tra un avvicinamento ed un allontanamento formano la coreografia di una danza. E in questo tanto girare e volteggiare, tra tanti vai e vieni, l’obiettivo è trovare la posizione in cui non ci si sente né lasciati soli, né invasi. Facile, no? No. Per niente. Ognuno può avere i suoi motivi per avvicinarsi e allontanarsi, e non è una questione che si risolve col metro come per le file al supermercato ai tempi del Coronavirus.

E’ un continuo prendere le distanze tra sé e gli altri (o tra sé e un’altra persona in particolare, soprattutto se questa è legata a particolari emozioni vissute come non lecite) per capire quando e se ci si può sentire ok. Ma soprattutto può esserci un prendere le distanze tra sé e i propri stati interiori, che possono essere vissuti come dolorosi o fonti di conflitto:“…che faccio? Prendo consapevolezza di questa cosa o faccio finta di niente? Provo ad allontanarmi…se sono lontano non vedo, è un po’ come non sentire, e se non sento non c’è nulla di sbagliato in ciò che faccio, ciò che sono, ciò che sento”.

Perché facciamo così? Per proteggere la nostra identità, quando percepiamo che alcuni suoi aspetti ci potrebbero rendere fragili. Perché abbiamo paura del contatto (anche metaforico) con l’altro, abbiamo paura di non riuscire a gestire l’essere toccati emotivamente, più che fisicamente. Abbiamo paura che gli altri abbiamo su di noi aspettative irrealizzabili, o che gli altri deludano le nostre. Abbiamo paura del giudizio – nostro e altrui – e , dell’idea che ci facciamo sulle conseguenze nella riduzione o nell’aumento di questa distanza.

E la danza tra avvicinamenti e allontanamenti serve per gestire tutta questa paura, questo bisogno di essere in relazione… ma non troppo, quanto basta.

Ovviamente sono abituata a gestire il disagio delle persone che mi parlano per la prima volta a livello professionale. Ho accettato questo loro atteggiamento e cercato di metterle il più possibile a loro agio, rassicurandole sulla natura dei nostri rapporti e mostrando loro che ero (sono 😉 ) una persona normalissima.

Ho avuto puro entusiasmo nel conoscerle e raccontato simpaticamente la mia difficoltà nell’esser lì in quel momento, così lontana da casa e dai miei affetti. E credo che questo abbia funzionato nel ridurre le distanze: si sono aperte, consentendomi di conoscere le loro storie e capire quali fossero i loro punti di forza…e spesso la fine dell’ora è giunta quasi a tradimento.

I frutti di questa mia riduzione delle distanze li ho trovati 2 settimane fa, quando abbiamo avuto il secondo giro di incontri, questa volta via internet visto che non possiamo ancora re-incontrarci di persona spostandoci tra regioni. Il cambiamento mi ha stupito. Siamo passate da “Ma dobbiamo proprio vederci?” adAspettavo questo appuntamento, ne avremo tanti altri, vero?”.

E’ stato lì che ho capito che avevo ridotto le distanze… raccontando della MIA distanza temporanea rispetto alla mia famiglia (ho anche aggiunto che ogni tanto non occuparmi di alcune incombenze poteva essere mooooolto interessante ;-P ).

Ma torniamo a noi e al mio viaggio verso l’ignoto e profondo nord. Solo alla seconda partenza sono riuscita ad arrivare fino a Bolzano ed ho scoperto che andare è stata un’ottima scelta. Ho conosciuto delle belle persone, la cittadina è molto carina e sono riuscita a portare avanti il mio lavoro senza problemi. Ma soprattutto ho scoperto che ce la potevo fare, anche non proprio dietro l’angolo e non supportata dall’idea di tornare a casa a fine giornata.

…quindi se la vita ci offre musica, è il caso di danzare. Potrebbe essere davvero bello!

Pulizie di primavera interiore

Pulizie di primavera interiore

Negli ultimi anni va tanto di moda far “decluttering” ossia svuotare l’armadio, o casa in generale, tenendo solo l’essenziale o ciò che ha un senso continui ad esserci.

Io lo faccio occasionalmente e l’effetto finale mi piace, mi sento soddisfatta e sollevata.

Stavolta però le cose sono andate al contrario, nella sequenza temporale, e mi hanno dato da pensare.

E’ facile tirar fuori, selezionare e dar via quando non ci sono grandi implicazioni interiori. In altri casi può esserci un blocco e prima di fare qualunque cosa, occorre lavorare su di esso, altrimenti è tutto inutile (magari si ottiene un risultato, ma sarà molto limitato nel tempo).

Nel mese di giugno ho partecipato ad una serata di Stesi dalle Tesi (www.stesidalletesi.it). Mi sono divertita tanto a raccontare la mia tesi di laurea a degli sconosciuti, che hanno reagito con curiosità e interesse. E’ stato un po’ strano, sono rimasta positivamente colpita da tutto ciò, anche perchè erano anni che non parlavo della mia tesi.

L’ho fatta partendo da una mia idea, ho faticato nel trovare una bibliografia che potesse fornirle una solida base teorica iniziale (ho passato settimane in biblioteca dipartimentale a sfogliare volumi cartacei ancora non digitalizzati), ho somministrato test standardizzati e un paio di strumenti creati ad hoc (e testati da me su miei amici-cavie), ho cercato attivamente (e fisicamente) il campione di persone su cui basare la mia ricerca (e a volte le persone mi hanno mollato a metà test) ed alla fine ho trovato incredibili risultati statistici che confermavano la mia ipotesi iniziale.

Dopo la discussione della tesi il professore con cui mi sono laureata mi ha inserito tra i suoi assistenti e mi ha proposto di scrivere un articolo scientifico sul lavoro effettuato e gli straordinari risultati ottenuti. Una figata, eh? Già.

Una grande gioia…a cui è seguita tanta frustrazione perchè di settimana in settimana il mio articolo aveva sempre qualcosa che non andava…mancava la parola giusta, anzi, no, era meglio quella della settimana precedente, era troppo corto, poi no, no, troppo lungo, quindi i colori dei grafici non piacevano al professore… finchè dopo mesi non c’è stata una battuta d’arresto: mi stavo trasferendo in un’altra città e per il professore era troppo “impersonale” continuare a confrontarci via internet sull’articolo. Volendo, potevo lasciargli i miei dati e ci avrebbe pensato lui a pubblicare l’articolo. Ovviamente ho rifiutato questa opzione con immenso disappunto e mi sono dedicata al mio trasloco.

A giugno, dopo Stesi dalle Tesi, alla prima occasione di vacanza nella mia città d’origine, sono salita nella soffitta di mia madre, come presa da un raptus, e dopo ben 17 anni ho fatto una selezione massiva degli ultimi libri di università rimasti e dei vestiti finiti lì nel famoso trasloco dopo la laurea.

Ciò che può essermi ancora utile o a cui sono particolarmente affezionata l’ho tenuto (1 scatola totale su 7 iniziali), il resto è uscito di casa ed andato verso nuovi lidi. Finalmente!

Non è che mia madre in questi 17 anni non mi abbia mai ricordato che c’erano quelle 7 scatole, tutt’altro. Solo…non avevo mai tempo, voglia, energie. Qualcosa in me non riusciva ad andare oltre, era come congelato. Non buttare era un modo per restare ancorata alla mia tesi, al periodo precedente ma anche alla frustrazione sperimentata successivamente.

Parlarne di nuovo, trovare persone interessate mi ha aiutato a mettere le mani in un processo che sotto sotto mi dava ancora dolore e chiudere il cerchio. Ho voltato pagina e sono andata oltre creando spazio fisico, ma soprattutto mentale.

Tornando all’argomento iniziale, la dinamica del disordine e la tendenza ad accumulare, emerge prepotente il concetto di Difesa. Cos’è una difesa in termini psicologici? E’ un prendere le distanze da qualcosa di doloroso per non soffrire oltre. Esistono diversi tipi di difese e non è semplice il nesso che si instaura tra le varie situazioni in cui ci imbattiamo e le strategie che usiamo per uscirne il meno ammaccati possibile. Tutto sommato lasciare degli scatoloni chiusi in soffita, anche se per 17 anni, non ha portato a conseguenze gravi (neanche per mia madre che me li teneva) ed ogni giorno mettiamo in atto comportamenti che mettono qualcosa di difficile gestione in stand-by. Non è un delitto e non è da debosciati farlo.

Però bisogna ricordare una cosa: restare vincolati ad una situazione ci ancora alle emozioni che vi sono collegate, nel bene come nel male (sia quelle positive, sia quelle negative) e ci impedisce di farne emergere di nuove. Semplicemente perchè non c’è spazio per loro, proprio dentro di noi: continuano a distrarci dalla nostra attuale vita e ci impediscono di vivere bene il momento presente, facendoci fare gaffe, errori e perdere occasioni.

Lasciamo che le cose fluiscano, vadano via tenendo solo ciò che c’è di buono, positivo e costruttivo. Io ho tolto dalla mia vita 6 scatoloni di roba di cui non avevo più bisogno da un bel po’, ed è stato bellissimo, liberatorio.

PS. I dati della mia tesi non li ho toccati. Ho ancora tutto il cartaceo e perfino i floppy disk con le elaborazioni statistiche. Al di là del lato affettivo, non si sa mai cosa può capitare quando ricrei dello spazio nella vita. 😉

bibliografia

Anna Freud, L’io e i meccanismi di difesa, editore Martinelli, Firenze, 1967

Come ti vedo? Cosa mi permetti di vedere (di te)?

Come ti vedo? Cosa mi permetti di vedere (di te)?

La settimana scorsa sono andata ad un barbecue con la mia famiglia. Eravamo in un giardino privato e varie persone erano addette ai ‘fuochi’ quando mio figlio ha puntato gli arrosticini. A lui piacciono tanto e ne voleva, ma erano ancora crudi e toccava aspettare. Intanto la persona addetta agli arrosticini ha iniziato ad interagire con noi, per spiegare la cottura ed aiutare il bambino a portar pazienza. Mi ha fatto una bella impressione e in seguito ho interagito con lui altre volte, mentre continuava a controllare che non bruciassero, fermo, in piedi e appoggiato a qualcosa.

Solo verso la terza volta che mi sono ritrovata lì a parlarci ho scoperto che…mancava qualcosa: in seguito ad un incidente ha perso una gamba.

Sono rimasta un bel po’ turbata. Non per il fatto in sé, ma perché per la prima mezz’ora non mi sono minimamente resa conto di questa cosa, che non era affatto nascosta. A volte posso essere un po’ stordita, ma possibile che non abbia notato una cosa simile?

E’ possibile: la percezione non è un semplice processo a senso unico. Qualcosa arriva sui nostri organi di senso, integriamo interiormente le varie informazioni ed abbiamo una riproduzione interna, oggettiva, di ciò che c’è davanti a noi. No non funziona così. Non è così semplice.

Korzybski avrebbe detto che la mappa non è il territorio. In base a ciò che orienta la nostra attenzione, delle cose saranno messe in evidenza ed altre tenderanno a cadere in una sorta di zona cieca, spariscono, perchè non fanno parte del quadro che ci siamo appena costruiti della situazione. Partecipiamo attivamente, ma inconsapevolmente, alla costruzione dell’immagine interna (quella che viene riprodotta dentro la nostra mente) di ciò che abbiamo davanti.

Cosa è successo nel mio caso? Non mi sono limitata ad osservare ma, come fanno tutti, tutti i giorni, qualcosa dentro di me ha osservato me che interagivo con qualcosa – qualcuno – di esterno, e traeva le sue conclusioni.

Ok, mi sono detta, ma possibile che sia tutta farina del mio sacco? E continuavo a non mettere a fuoco qualcosa…l’esterno! Ecco cosa avevo lasciato fuori! Non ho interagito con un albero, ma con un altro essere umano, che in qualche modo può aver contribuito alla mia percezione…diciamo parziale.

Presa dal dubbio, l’ho contattato e gli ho chiesto se gli fosse già capitato che altre persone “non avessero visto” la sua disabilità. Matteo (Cavagnini www.facebook.com/matteofive) mi ha risposto in modo molto semplice.

Lui è il capitano della squadra di basket paralimpica italiana (Santa Lucia Basket www.santaluciabasket.org) ed ha imparato a venire a patti con la sua disabilità. L’ha accettata. E la sua accettazione è tale che effettivamente altre volte è capitato che delle persone non abbiano notato nulla e/o abbiano dato per scontato che lui fosse fisicamente normodotato.

Ripensando a me, a ciò che mi è arrivato all’inizio, ho capito che ho avuto l’immagine di un uomo tranquillo, rilassato e sicuro di sé. Era appoggiato ad una stampella, ma con la stessa postura di una persona qualunque col gomito sul bancone di un bar. Nulla in me ha fatto scattare un “ti aiuto, faccio io” come altre volte, in altri contesti e con altre persone.

La percezione può essere influenzata anche dalle esperienze passate (eh, il discorso si fa apparentemente sempre più complicato)…se un certo tipo di contesto non si riproduce, non vedo certe cose tipiche di quel quadro. In questo caso non ho avuto la percezione di qualcuno che avesse bisogno di essere aiutato e si può dire che la mia testa si è subito settata sull’immagine di una persona normodotata.

Non ho visto qualcosa che per lui non è più un problema. E mi ha raccontato che è fondamentale, questa accettazione. Prima arriva, nei nuovi casi (persone che hanno appena subito una perdita analoga), e meglio è. Non si tratta di abbattersi passivamente perché certe cose non si potranno più fare, ma di capire che la propria vita ha ancora tante risorse da mettere in gioco. Si chiudono delle alternative, ma se ne aprono altre e si scoprono capacità inaspettate che altrimenti sarebbero rimaste inutilizzate. La vita non è data semplicemente da ciò che ci capita – spesso tra capo e collo – ma da come reagiamo, da che senso diamo a ciò che ci capita. Questo determinerà come sarà la nostra vita e cosa vi metteremo dentro.

Tornando al discorso sul come percepiamo ciò che ci circonda, la nostra vita è una mappa che possiamo costruire ogni giorno, non semplicemente il territorio che troviamo già pronto. E in base a come costruiamo questa mappa, avremo infiniti percorsi per esplorare e vivere nel mondo.

Grazie Matteo. E Forza Santa Lucia Basket! 😉

Bibliografia

Bateson G., Mente e natura, Adelphi Edizioni, Milano, 1984

Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi Edizioni, Milano, 1976

Malagoli Togliatti M. Telfener U. (a cura di), Dall’individuo al sistema, Bollati Boringhieri editore, Torino 1991

Ruggieri V., L’esperienza estetica, Armando Editore, Roma 1997

Propositi per il nuovo anno

Propositi per il nuovo anno

E’ cominciato un nuovo anno e siamo punto e a capo sul solito mettersi dei propositi: le cose da realizzare entro l’anno, dalle più semplici a quelle col vago sapore di utopia.

Cos’è un proposito? La parola viene dal latino, propositum, ossia “cosa posta avanti”. Nel vocabolario trovo “ferma intenzione (in quanto determina la volontà ed il comportamento)”.

Non so com’è per le altre persone, ma per me questo termine ha un po’ perso il suo significato originario.

Tutti gli anni, anche se tendo a “ricominciare da adesso” senza che vi siano calendari a ricordarmi di farlo, ormai ci sono quei 2/3 propositi che arrivano direttamente dall’anno prima, il quale a sua volta li aveva ereditati intonsi dall’anno precedente.

Come mi sento rispetto a questi obiettivi ancora da conseguire? Non molto soddisfatta di me stessa. Perchè se non li ho realizzati (e non mi ci sono neanche avvicinata) evidentemente non mi sono applicata abbastanza per il loro conseguimento.

Prima di parlare d’altro vorrei precidare due cose:

– Ognuno di noi osserva il mondo attraverso particolari schemi che ci aiutano a concepire ciò che accade. In base a tutto ciò, inconsapevolmente, scegliamo cosa metter in evidenza e cosa escludere dal nostro panorama. In modo indiretto, quindi, decidiamo come agiremo, quali obiettivi ci porremo e che tipo di “combattente” saremo: quello che “ancora spera di vincere o uno che non ha speranza di vincere ma cerca di perdere nella maniera meno grave possibile” (Maslow).

– Quando vogliamo realizzare un desiderio, il nostro obiettivo non è davvero quello, ma ciò che rappresenta, dove intendiamo arrivare dopo averlo realizzato. Inoltre, per arrivare allo stesso obiettivo finale, si avrà un differente desiderio (inteso come punto di partenza) in base al momento storico, alla propria indole ed alla cultura (o subcultura) di appartenenza. Se, ad esempio, si desidera avere più soldi, non è per i soldi in sè, ma per acquistare qualcosa che fa raggiungere un altro livello sociale o per accrescere l’autostima. Ed in base alle caratteristiche personali o al gruppo di appartenenza si tenderà a pensare che i soldi si possono ottenere con una rapina in banca oppure con un nuovo incarico accademico.

Per tornare a noi, c’è qualche speranza di riuscire a realizzare qualcosa? Cosa si può fare per riuscire nel proprio intento?

Occorre:

Prendersi la responsabilità di ciò che si vuole ottenere e smettere di esprimere desideri come se si stesse cercando stelle cadenti in una notte d’estate, dando per scontato che poi le cose si realizzaeranno da sole.

Capire dove si vuole arrivare davvero: cosa c’è dietro il mio obiettivo? Siamo sicuri che il mio proposito sia l’unica strada giusta per arrivare a ciò che voglio? Magari si può realizzare la stessa cosa seguendo altri percorsi , non per forza più facili, ma più adatti al proprio modo di essere. E dopo, valutare e scegliere di conseguenza.

Prendere nota di tempi e piccoli step attraverso cui passare (le cose non si realizzano dall’oggi al domani).

– Fare e rifare periodicamente il punto della situazione. Senza drammi, ma con onestà e serietà.

Partiamo da me. Tra I vari propositi vorrei dimagrire ma, visto che non ci riesco, davvero ho questa intenzione o sotto sotto qualcosa dentro di me si oppone a questa prospettiva? Facciamo che inizio cercando di comprendere cosa vorrei ottenere, a livello profondo, perdendo peso.

E voi? Avete già stilato la lista dei vostri propositi per il nuovo anno? Ci sono tutte voci nuove o qualcuna è in eredità dall’anno scorso?

Bibliografia

Kelly G.A., La psicologia dei costrutti personali, Raffaello cortina Editore, Milano 2004

Maslow A.H., Motivazione e personalità, Editore Armando Armando, 1973

Vecchi libri, carta giapponese e felicità

Vecchi libri, carta giapponese e felicità

Quando mi sento felice, perché ho avuto una bella giornata e le cose si sono incastrate tutte bene, qualcosa dentro di me comincia a canticchiare una canzone: My favourite things. E’ un po’ la mia muta e personale colona sonora delle giornate andate bene.

Spesso si pensa “se questa cosa cambiasse…se quella persona fosse qui…se ottenessi il lavoro che dico io…sarei felice”. Mah. Realizzare un desiderio è sempre bello, ma poi magari ci si rende conto che manca ancora qualcos’altro, che forse non siamo all’altezza della nuova situazione e allora? E allora si ricomincia da capo.

La scorsa estate, nonostante gli incastri della vita non fossero propizi, mi sono iscritta ad un corso di restauro libri. Quel corso mi ha reso felice? Sì, ma non perché il corso fosse una panacea (a me è piaciuto tanto, ma non siamo fatti con lo stampino), semplicemente perché ad un certo punto ho dato uno strattone e mi sono ricavata (sostenuta da mio marito) uno spazio mio, solo mio. In cui non ero la psicoterapeuta, la mamma, la moglie, la figlia o quella che deve correre a destra e manca per mettere le toppe. Ero io soltanto a “giocare” con carta, colla e attrezzi quasi alchemici.

Tutto ciò mi ha reso felice, davvero? No, però mi ha alleggerito.

E mi ha fatto venir voglia di approfondire questo stato d’animo.

Cercando qua e là, mi sono imbattuta in un libro che già avevo in casa. Un libro semplice, chiaro, ironico. In una parola Fantastico. In cui si parla di…tutto ciò che sarebbe meglio fare per essere infelici.

E lì ho capito una volta di più che essere felici non è un momento, ma un processo. Non è il risultato, ma ciò che faccio per arrivarci e come. Non è il corso di restauro libri, ma io che do uno strattone e mi ritaglio uno spazio solo mio con la complicità di mio marito e mio figlio che dice orgoglioso agli amichetti che io “aggiusto libri”.

Le persone che vanno in terapia, tendenzialmente alla fine del percorso (se arrivano fino alla fine) stanno meglio. Perché qualcosa si è acceso all’improvviso dentro di loro? Anche. Perché a volte ci sono insight stravolgenti. Ma soprattutto perché hanno deciso di prendere in mano la loro vita e farci qualcosa di costruttivo. Senza quel qualcosa di preparatorio, neanche il migliore insight del mondo troverebbe un varco da cui offrire uno spiraglio di luce.

Nel libro trovato in casa si approfondiscono vari aspetti. Qui mi concentrerò solo su un aspetto: il tempo e come lo usiamo.

Spesso noi vediamo il passato come unico momento aulico e degno di nota della nostra vita. Non conta ciò che è accaduto in realtà. Il passato è sempre migliore del presente, a prescindere. Ci focalizziamo su ciò che andava bene e il presente non sarà maaai alla sua altezza.

La conseguenza dell’essere rivolti al passato, è che non ci restano né tempo né risorse per ciò che occorre fare adesso, nel presente. Siamo troppo occupati dalle recriminazioni e dalla lamentela per ciò che, secondo noi, abbiamo perso, da non pensare a ciò che abbiamo e potrebbe portarci altra felicità. E’ un po’ come camminare guardando indietro. Si va più piano ed è inevitabile trovare degli inciampi.

Me ed il corso di restauro libri: una volta avevo taaaaanto tempo libero, avrei potuto farlo prima il corso, e adesso sarei stata l’essere più felice dell’universo. Come direbbe mio figlio….Macchè?! Ero sempre presa da seminari, corsi, lavoro, su cui si intersecavano dilemmi esistenziali… non proprio una pacchia. Infatti quest’estate mi sono fermata e detta “non è vero che prima avrei avuto il tempo, il tempo, se davvero voglio farlo, posso trovarlo, ora, non importa come!” e così è stato.

Un’altra cosa che non facciamo per essere felici, senza rendercene conto, è non accettare tranquillamente ciò che ci offre la vita adesso, nel presente. E’ una cosa un po’ strana, prima volevamo qualcosa, quando quel qualcosa arriva…ecco che non lo vogliamo più, quasi che la nostra vita non sia più compatibile con la soddisfazione di quel bisogno o desiderio. E’ capitato anche a me. “Ormai ho più di 40 anni, ma dove vado? Ho già un lavoro, che mi metto a fare?”…per fortuna avevo davvero dei libri da rimettere in sesto e la mia soddisfazione nel presente ci sarebbe stata comunque.

L’ultima situazione legata al tempo è…che solo perché in passato una soluzione è stata valida, non è detto che lo sarà anche adesso o in futuro. Qui l’autore del libro, Paul Watzlawick, racconta una storia molto simpatica che vorrei riproporre.

C’è un ubriaco che perde le chiavi casa. Le cerca e arriva un’altra persona che comincia ad aiutarlo. Mentre girano sotto un lampione da diverso tempo, il secondo arrivato gli chiede se sia sicuro di averle perse lì, sotto il lampione. L’ubriaco lo guarda e fa “No, le ho perse dietro un cespuglio, ma lì è buio pesto, meglio cercare qui che c’è più luce.”

La storia è simpatica e il protagonista è ubriaco, quindi non nel pieno possesso delle sue capacità mentali. Ci viene da dire “Eh, ma io non sono mai andato a cercare sotto un lampione ciò che sapevo essere dietro un cespuglio.”

Già. Ma quante volte abbiamo pensato che la nostra felicità fosse in un incarico di lavoro specifico, una relazione sentimentale con un partner in particolare o in qualcos’altro e una volta ottenuto….ci siamo accorti che non eravamo felici manco per idea?

Io, intanto, che fine ho fatto?

Ho finito il mio corso, restaurato un libro con grandi soddisfazioni, non sono diventata una restauratrice, ma…ho imparato qualcosa di nuovo, di pratico e su me stessa. Ho imparato a zittire quella vocina maligna che mi dice che non posso, non è il caso e “ma dove vado?”

Non ho raggiunto nessun livello di non ritorno sulla mia strada verso la felicità, ma certamente ho imparato qualcosa che mi aiuterà ad avvicinarmici un po’ di più di ieri… perché ieri, a dispetto delle mie false illusioni, certamente non ero più felice di oggi.

BIBLIOGRAFIA

Paul Watzlawick Istruzioni per rendersi infelici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1984