Nascondersi come gatti (dimenticando di avere orecchie e coda)

Nascondersi come gatti (dimenticando di avere orecchie e coda)

Mi vergogno” ecco cosa mi hanno detto due mie amiche (che tra loro non si conoscono) nel raccontarmi delle cose accadute loro e con ben poco di scabroso.

In un caso è stato proposto di lavorare tanto, uscendo anche fuori dal perimetro delle consuete mansioni (fondamentalmente facendo anche il lavoro che altri colleghi non erano riusciti a portare a termine, nulla di politicamente scorretto), promettendo di rendere effettivo anche un progetto molto caro alla mia amica e che fino a quel momento sembrava relegato nell’utopia. Un do ut des che però non ha portato alla concretizzazione del tanto desiderato progetto, usato semplicemente come specchietto per le allodole.

Nell’altro caso la mia amica, esperta nella gestione di alcuni animali, ha adottato un cucciolo che stava portando scompiglio e conflitti in casa.

Due situazioni molto diverse con dei punti in comune – cercare di mettere in campo le proprie competenze senza ottenere granché – e lo stesso esito: un grande, profondo, senso di inadeguatezza.

Ma perché mi hanno citato lo stesso sentimento?

‘Vergogna’ viene dal sanscrito, è la forma riflessiva di ‘nascondere, celare, coprire’, quindi vuol dire ‘nascondersi, coprirsi’.

Ho approfondito e scoperto che quando c’è la tendenza a manifestare vergogna nella propria vita, spesso ci sono state situazioni ricorrenti nel periodo dell’infanzia.

È probabile (perché non è detto che le cose siano andate per forza così…per fortuna la casistica di cose che possono accadere e le eventuali reazioni variano da persona a persona e da momento a momento) che da piccoli si siano sperimentate dinamiche relazionali – cioè aver visto o ascoltato i propri adulti di riferimento fare o dire cose – particolari. I genitori potrebbero aver avuto grandi aspettative, troppo grandi, verso i loro bambini, potrebbero averli messi a confronto con altre persone più performanti, aver emesso giudizi implacabili senza tener conto delle reali capacità del bambino e soprattutto aver negato il suo stato emotivo (quindi negato la possibilità di condividere e gestire il proprio disagio interiore).

Prendiamo ogni singolo aspetto e vediamo cosa accade alle persone una volta diventate adulte.

Quando qualcuno nutre grandi aspettative su di noi, questo può incoraggiarci a dare il massimo…ma se l’aspettativa è troppo alta sperimentiamo tutt’altro: la frustrazione. Se questa è ripetuta e veniamo messi a confronto con altre persone, impariamo che non solo non ce la facciamo, ma che per qualcun altro la storia è ben diversa e che quindi siamo noi a non essere abbastanza. Se questa esperienza viene ripetuta più e più volte, non è un bene per l’autostima: si tende a guardare come sono e cosa fanno gli altri (sempre altri più bravi) e si crea una rappresentazione mentale di sé manchevole (“io non ho qualcosa che questa persona e tante altre hanno”).

In questi casi, il giudizio, impietoso, sale sù prepotente. C’è un continuo tentativo di dare un’immagine di sé forte, sicura, bella e vincente calibrandosi con ciò che c’è fuori, auto-osservandosi per vedere se e quanto si sta al passo. E’ molto faticoso vivere così, perché ad un certo punto si va avanti arrancando dietro standard tarati su qualcun altro. L’unico obiettivo è restare a galla in una competizione infinita. La competizione è solo apparentemente contro l’altro, in realtà dentro di sé c’è una continua lotta contro la propria parte giudicante interna… un Cerbero che vive di vita propria. Sentiamo non solo che non andiamo bene, ma che è impossibile essere accettati dagli altri così come si pensa di essere: decisamente imperfetti.

Ed eccoci all’ultimo aspetto. La negazione dell’esperienza emotiva è forse una delle cose più pesanti da dover gestire: “Non è vero che ci stai male”, “Non stai provando questa o quella emozione”. Questa negazione del vissuto interno è devastante e crea problemi anche in seguito. C’è una situazione che fa emergere un disagio (che non si può spegnere con un interruttore come se nulla fosse) e o si viene giudicati per ciò che si sente, o in generale passa il messaggio che non è normale avere simili reazioni a livello emotivo.

Il problema serio è che quando questo si ripete più e più volte, si crea un’abitudine mentale a cercare di spostare l’attenzione su qualcos’altro, cercando di rendere il disagio meno pericoloso. Per esempio, nel momento in cui c’è qualcosa che non quadra in una relazione di coppia, invece di focalizzarsi sul problema che crea la frattura, si tende a litigare sul nulla…ad esempio su che strada si fa per andare al pranzo della domenica senza dire che si è nervosi perché si sente di essere obbligati ad esserci e a dover interagire con persone sgradite. Il problema è che così le emozioni restano lì, in modo confuso, e finiscono solo per ingarbugliarsi e rendere tutto più difficile.

Il desiderio profondo di nascondersi non ha solo la finalità di non essere colti in una situazione infamante. In quel caso ci si nasconderebbe anche a se stessi. Il giudizio implacabile è stato emesso dentro ed è dentro che in un certo senso deve andare a posto.

Cosa si può fare per non essere fagocitati in questo modo? Ecco alcune cose decisamente non esaustive su cui poter ‘lavorare’ (prenderle in considerazione non fa mai male):

1) riconoscere la frustrazione per l’inciampo. Può capitare di valutare male una situazione (e se dietro c’è un processo manipolatorio, la trappola è stata tesa ad arte e l’inciampo è quasi inevitabile). Succede… accogliamo questa situazione di disagio, vediamo a cosa si aggrappa, se tira dentro anche altre situazioni (ad esempio c’è l’inciampo professionale e qualcuno della sfera privata aggiunge recriminazioni ed ulteriori critiche… ‘ci mette il carico’) e vediamo se qualcosa può essere gestito e migliorato subito in qualche modo.

2) cercare di comprendere quale sia l’aspettativa che abbiamo su di noi in quella situazione. E’ sostenibile? Potremmo farcela a far ciò che vorremmo? O abbiamo a che fare con un fallimento annunciato in cui ci siamo immersi con tutte le scarpe?

3) guardare in faccia la realtà: chi siamo? Chi vorremmo essere? Possiamo farcela ad essere come vorremmo? E se dovessimo snaturaci per raggiungere lo standard che ci imponiamo? Forse non è tanto giusto pretendere di essere diversi da ciò che siamo… ‘il susino fa le susine, se gli chiedi di farti le ciliege, quello ti guarderà perplesso…’

4) parlarne. In ogni caso, comunque, parlarne. E’ difficile, ma fondamentale. Dire le cose ad alta voce, buttarle fuori, è già un modo per guardarle da un’altra angolazione e capire meglio dove potrebbe essere il quid. Magari si incontra anche qualcuno che riesce a dare il giusto peso al nostro stato d’animo e non cerca di metterlo ‘sotto il tappeto’ dicendo che è senza importanza.

Epilogo. Cosa è successo alle mie amiche?

Ci hanno messo un po’ a raccontarmi il loro disagio, ma tutto sommato dopo averne parlato qualcosa è migliorato: non le situazioni in sé (il progetto tanto desiderato ha continuato a restare solo un’idea ed il cucciolo… è rimasto un cucciolo) ma il modo in cui loro si sentivano rispetto all’inciampo. Hanno smesso di giudicarsi vistosamente, visto se e cosa potevano fare per rimettere a posto ciò che era andato fuori asse ed hanno iniziato a gestire il problema senza sentirsi per forza chiamate in causa all’ennesima potenza…detto in altre parole, la prima amica ha smesso di fare ciò che non le competeva e la seconda ha accettato che…i cuccioli masticano e rovinano un po’ la casa e nessuno morirà per questo.

Ovviamente non è che siano passate da “mi vergogno” a “chissenefrega” nel giro di 5 minuti, ma piano piano verranno a patti anche con questa cosa.

Un detto giapponese dice che ‘uno è la madre di cento’: il difficile è iniziare, aprirsi in questo caso, e da lì è tutto in discesa. Magari quando c’è un problema proviamo a mettere una piccola azione desueta, che non viene spontanea: parliamone con qualcuno che di solito ci ascolta… Proviamoci e vediamo che succede.

BIBLIOGRAFIA

Lèon Wurmser, La struttura della vergogna, in Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

Propositi per il nuovo anno

Propositi per il nuovo anno

E’ cominciato un nuovo anno e siamo punto e a capo sul solito mettersi dei propositi: le cose da realizzare entro l’anno, dalle più semplici a quelle col vago sapore di utopia.

Cos’è un proposito? La parola viene dal latino, propositum, ossia “cosa posta avanti”. Nel vocabolario trovo “ferma intenzione (in quanto determina la volontà ed il comportamento)”.

Non so com’è per le altre persone, ma per me questo termine ha un po’ perso il suo significato originario.

Tutti gli anni, anche se tendo a “ricominciare da adesso” senza che vi siano calendari a ricordarmi di farlo, ormai ci sono quei 2/3 propositi che arrivano direttamente dall’anno prima, il quale a sua volta li aveva ereditati intonsi dall’anno precedente.

Come mi sento rispetto a questi obiettivi ancora da conseguire? Non molto soddisfatta di me stessa. Perchè se non li ho realizzati (e non mi ci sono neanche avvicinata) evidentemente non mi sono applicata abbastanza per il loro conseguimento.

Prima di parlare d’altro vorrei precidare due cose:

– Ognuno di noi osserva il mondo attraverso particolari schemi che ci aiutano a concepire ciò che accade. In base a tutto ciò, inconsapevolmente, scegliamo cosa metter in evidenza e cosa escludere dal nostro panorama. In modo indiretto, quindi, decidiamo come agiremo, quali obiettivi ci porremo e che tipo di “combattente” saremo: quello che “ancora spera di vincere o uno che non ha speranza di vincere ma cerca di perdere nella maniera meno grave possibile” (Maslow).

– Quando vogliamo realizzare un desiderio, il nostro obiettivo non è davvero quello, ma ciò che rappresenta, dove intendiamo arrivare dopo averlo realizzato. Inoltre, per arrivare allo stesso obiettivo finale, si avrà un differente desiderio (inteso come punto di partenza) in base al momento storico, alla propria indole ed alla cultura (o subcultura) di appartenenza. Se, ad esempio, si desidera avere più soldi, non è per i soldi in sè, ma per acquistare qualcosa che fa raggiungere un altro livello sociale o per accrescere l’autostima. Ed in base alle caratteristiche personali o al gruppo di appartenenza si tenderà a pensare che i soldi si possono ottenere con una rapina in banca oppure con un nuovo incarico accademico.

Per tornare a noi, c’è qualche speranza di riuscire a realizzare qualcosa? Cosa si può fare per riuscire nel proprio intento?

Occorre:

Prendersi la responsabilità di ciò che si vuole ottenere e smettere di esprimere desideri come se si stesse cercando stelle cadenti in una notte d’estate, dando per scontato che poi le cose si realizzaeranno da sole.

Capire dove si vuole arrivare davvero: cosa c’è dietro il mio obiettivo? Siamo sicuri che il mio proposito sia l’unica strada giusta per arrivare a ciò che voglio? Magari si può realizzare la stessa cosa seguendo altri percorsi , non per forza più facili, ma più adatti al proprio modo di essere. E dopo, valutare e scegliere di conseguenza.

Prendere nota di tempi e piccoli step attraverso cui passare (le cose non si realizzano dall’oggi al domani).

– Fare e rifare periodicamente il punto della situazione. Senza drammi, ma con onestà e serietà.

Partiamo da me. Tra I vari propositi vorrei dimagrire ma, visto che non ci riesco, davvero ho questa intenzione o sotto sotto qualcosa dentro di me si oppone a questa prospettiva? Facciamo che inizio cercando di comprendere cosa vorrei ottenere, a livello profondo, perdendo peso.

E voi? Avete già stilato la lista dei vostri propositi per il nuovo anno? Ci sono tutte voci nuove o qualcuna è in eredità dall’anno scorso?

Bibliografia

Kelly G.A., La psicologia dei costrutti personali, Raffaello cortina Editore, Milano 2004

Maslow A.H., Motivazione e personalità, Editore Armando Armando, 1973