da Simona Rosati | Mag 17, 2023 | Ansia, Attacchi di Panico, Blog, Depressione, Disturbi Ossessivo Compulsivi, Disturbi Psicosomatici, Fobie, Incertezze sentimentali, Infertilità, Neogenitorialità, Psicoterapia di coppia, Psicoterapia di Famiglia, Psicoterapia Individuale
“Mi vergogno” ecco cosa mi hanno detto due mie amiche (che tra loro non si conoscono) nel raccontarmi delle cose accadute loro e con ben poco di scabroso.
In un caso è stato proposto di lavorare tanto, uscendo anche fuori dal perimetro delle consuete mansioni (fondamentalmente facendo anche il lavoro che altri colleghi non erano riusciti a portare a termine, nulla di politicamente scorretto), promettendo di rendere effettivo anche un progetto molto caro alla mia amica e che fino a quel momento sembrava relegato nell’utopia. Un do ut des che però non ha portato alla concretizzazione del tanto desiderato progetto, usato semplicemente come specchietto per le allodole.
Nell’altro caso la mia amica, esperta nella gestione di alcuni animali, ha adottato un cucciolo che stava portando scompiglio e conflitti in casa.
Due situazioni molto diverse con dei punti in comune – cercare di mettere in campo le proprie competenze senza ottenere granché – e lo stesso esito: un grande, profondo, senso di inadeguatezza.
Ma perché mi hanno citato lo stesso sentimento?
‘Vergogna’ viene dal sanscrito, è la forma riflessiva di ‘nascondere, celare, coprire’, quindi vuol dire ‘nascondersi, coprirsi’.
Ho approfondito e scoperto che quando c’è la tendenza a manifestare vergogna nella propria vita, spesso ci sono state situazioni ricorrenti nel periodo dell’infanzia.
È probabile (perché non è detto che le cose siano andate per forza così…per fortuna la casistica di cose che possono accadere e le eventuali reazioni variano da persona a persona e da momento a momento) che da piccoli si siano sperimentate dinamiche relazionali – cioè aver visto o ascoltato i propri adulti di riferimento fare o dire cose – particolari. I genitori potrebbero aver avuto grandi aspettative, troppo grandi, verso i loro bambini, potrebbero averli messi a confronto con altre persone più performanti, aver emesso giudizi implacabili senza tener conto delle reali capacità del bambino e soprattutto aver negato il suo stato emotivo (quindi negato la possibilità di condividere e gestire il proprio disagio interiore).
Prendiamo ogni singolo aspetto e vediamo cosa accade alle persone una volta diventate adulte.
Quando qualcuno nutre grandi aspettative su di noi, questo può incoraggiarci a dare il massimo…ma se l’aspettativa è troppo alta sperimentiamo tutt’altro: la frustrazione. Se questa è ripetuta e veniamo messi a confronto con altre persone, impariamo che non solo non ce la facciamo, ma che per qualcun altro la storia è ben diversa e che quindi siamo noi a non essere abbastanza. Se questa esperienza viene ripetuta più e più volte, non è un bene per l’autostima: si tende a guardare come sono e cosa fanno gli altri (sempre altri più bravi) e si crea una rappresentazione mentale di sé manchevole (“io non ho qualcosa che questa persona e tante altre hanno”).
In questi casi, il giudizio, impietoso, sale sù prepotente. C’è un continuo tentativo di dare un’immagine di sé forte, sicura, bella e vincente calibrandosi con ciò che c’è fuori, auto-osservandosi per vedere se e quanto si sta al passo. E’ molto faticoso vivere così, perché ad un certo punto si va avanti arrancando dietro standard tarati su qualcun altro. L’unico obiettivo è restare a galla in una competizione infinita. La competizione è solo apparentemente contro l’altro, in realtà dentro di sé c’è una continua lotta contro la propria parte giudicante interna… un Cerbero che vive di vita propria. Sentiamo non solo che non andiamo bene, ma che è impossibile essere accettati dagli altri così come si pensa di essere: decisamente imperfetti.
Ed eccoci all’ultimo aspetto. La negazione dell’esperienza emotiva è forse una delle cose più pesanti da dover gestire: “Non è vero che ci stai male”, “Non stai provando questa o quella emozione”. Questa negazione del vissuto interno è devastante e crea problemi anche in seguito. C’è una situazione che fa emergere un disagio (che non si può spegnere con un interruttore come se nulla fosse) e o si viene giudicati per ciò che si sente, o in generale passa il messaggio che non è normale avere simili reazioni a livello emotivo.
Il problema serio è che quando questo si ripete più e più volte, si crea un’abitudine mentale a cercare di spostare l’attenzione su qualcos’altro, cercando di rendere il disagio meno pericoloso. Per esempio, nel momento in cui c’è qualcosa che non quadra in una relazione di coppia, invece di focalizzarsi sul problema che crea la frattura, si tende a litigare sul nulla…ad esempio su che strada si fa per andare al pranzo della domenica senza dire che si è nervosi perché si sente di essere obbligati ad esserci e a dover interagire con persone sgradite. Il problema è che così le emozioni restano lì, in modo confuso, e finiscono solo per ingarbugliarsi e rendere tutto più difficile.
Il desiderio profondo di nascondersi non ha solo la finalità di non essere colti in una situazione infamante. In quel caso ci si nasconderebbe anche a se stessi. Il giudizio implacabile è stato emesso dentro ed è dentro che in un certo senso deve andare a posto.
Cosa si può fare per non essere fagocitati in questo modo? Ecco alcune cose decisamente non esaustive su cui poter ‘lavorare’ (prenderle in considerazione non fa mai male):
1) riconoscere la frustrazione per l’inciampo. Può capitare di valutare male una situazione (e se dietro c’è un processo manipolatorio, la trappola è stata tesa ad arte e l’inciampo è quasi inevitabile). Succede… accogliamo questa situazione di disagio, vediamo a cosa si aggrappa, se tira dentro anche altre situazioni (ad esempio c’è l’inciampo professionale e qualcuno della sfera privata aggiunge recriminazioni ed ulteriori critiche… ‘ci mette il carico’) e vediamo se qualcosa può essere gestito e migliorato subito in qualche modo.
2) cercare di comprendere quale sia l’aspettativa che abbiamo su di noi in quella situazione. E’ sostenibile? Potremmo farcela a far ciò che vorremmo? O abbiamo a che fare con un fallimento annunciato in cui ci siamo immersi con tutte le scarpe?
3) guardare in faccia la realtà: chi siamo? Chi vorremmo essere? Possiamo farcela ad essere come vorremmo? E se dovessimo snaturaci per raggiungere lo standard che ci imponiamo? Forse non è tanto giusto pretendere di essere diversi da ciò che siamo… ‘il susino fa le susine, se gli chiedi di farti le ciliege, quello ti guarderà perplesso…’
4) parlarne. In ogni caso, comunque, parlarne. E’ difficile, ma fondamentale. Dire le cose ad alta voce, buttarle fuori, è già un modo per guardarle da un’altra angolazione e capire meglio dove potrebbe essere il quid. Magari si incontra anche qualcuno che riesce a dare il giusto peso al nostro stato d’animo e non cerca di metterlo ‘sotto il tappeto’ dicendo che è senza importanza.
Epilogo. Cosa è successo alle mie amiche?
Ci hanno messo un po’ a raccontarmi il loro disagio, ma tutto sommato dopo averne parlato qualcosa è migliorato: non le situazioni in sé (il progetto tanto desiderato ha continuato a restare solo un’idea ed il cucciolo… è rimasto un cucciolo) ma il modo in cui loro si sentivano rispetto all’inciampo. Hanno smesso di giudicarsi vistosamente, visto se e cosa potevano fare per rimettere a posto ciò che era andato fuori asse ed hanno iniziato a gestire il problema senza sentirsi per forza chiamate in causa all’ennesima potenza…detto in altre parole, la prima amica ha smesso di fare ciò che non le competeva e la seconda ha accettato che…i cuccioli masticano e rovinano un po’ la casa e nessuno morirà per questo.
Ovviamente non è che siano passate da “mi vergogno” a “chissenefrega” nel giro di 5 minuti, ma piano piano verranno a patti anche con questa cosa.
Un detto giapponese dice che ‘uno è la madre di cento’: il difficile è iniziare, aprirsi in questo caso, e da lì è tutto in discesa. Magari quando c’è un problema proviamo a mettere una piccola azione desueta, che non viene spontanea: parliamone con qualcuno che di solito ci ascolta… Proviamoci e vediamo che succede.
BIBLIOGRAFIA
Lèon Wurmser, La struttura della vergogna, in Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
da Simona Rosati | Ott 13, 2021 | Ansia, Blog, Consulenze, Depressione, Disturbi Psicosomatici, Fobie, Incertezze sentimentali, Psicoterapia di coppia, Psicoterapia Individuale
Mesi fa ho seguito un corso di formazione professionale in cui si parlava dell’importanza del desiderio come motivazione che ci spinge verso i grandi obiettivi della nostra vita. Ho pensato che questo desiderio fosse molto in relazione con la felicità: col realizzare qualcosa, raggiungere un traguardo (anche solo riuscire a portare avanti una dieta dimagrante con successo) e di conseguenza sentirsi soddisfatti della propria vita.
Visto che l’argomento mi piaceva, mi sono messa in azione: ho deciso di scrivere un articolo sul desiderare e sulla felicità. Mi sono messa lì il primo giorno, il secondo, il terzo…. è passata qualche settimana ma niente… Non riuscivo a scrivere niente, eppure era così facile…Nella mia testa il discorso c’era, ma nel momento in cui prendevo carta e penna, ecco che spariva tutto. Ho dimenticato interi discorsi, collegamenti…tutto. Ho provato anche a registrarmi con il cellulare o ad usare convertitori automatici…niente di niente. Eppure ricordavo tante altre cose, solo sul versante ‘desiderare e felicità’ avevo il nulla appena cercavo di metterlo nero su bianco.
Piano piano ho iniziato a rimandare la stesura dell’articolo, avevo altre priorità, altre cose da fare e perfino caricare la lavatrice (e non sono proprio la massaia della porta accanto) era qualcosa di impellente che mi portava via da quel lavoro. Non capivo: eppure ho sempre avuto dei desideri. Una lunga lista di desideri semplici, leciti, ma anche più complessi e con diversi step da mettere a punto per la loro realizzazione… nulla di sconvolgente, nulla di diverso rispetto a tante altre persone.
Mi sono fermata un attimo e ho capito che c’erano delle resistenze. Questo tema, bellissimo, mi smuoveva qualcosa dentro. Ho preso in mano alcuni miei desideri… li ho guardati, valutati, giudicati (sì, ho anche emesso giudizi su di loro)… forse questi desideri non andavano bene per la mia vita, forse tutto sommato avrei dovuto accontentarmi di ciò che ho…dopotutto, che male c’è ad accontentarsi? Ma dentro di me qualcosa scalpitava… “chè, sei matta? Passi tutto il tempo a dire ai tuoi pazienti che devono guardarsi dentro, far emergere ciò che sono e vogliono realmente, e poi, proprio tu butti la spugna? Non sia mai!”
Piano piano, ho deciso di osservare ciò che accadeva, dentro e fuori di me. Volevo capire quale fosse la corda toccata da questa situazione. Non è stato semplice, ci ho messo un po’ e ne ho anche parlato con qualcuno, prendendo nota di ciò che accadeva nell’interazione e dentro di me quando provavo a parlare di un mio desiderio con altre persone.
La corda era la paura. Esprimere un desiderio fa emergere la mia paura.
La paura di restar delusa dalla mancata realizzazione di ciò che voglio.
La paura delle conseguenze operative: sarò in grado di gestire ciò che accadrà dopo? E se non sono all’altezza, se qualcosa va storto, se rovino tutto?
La paura del giudizio, di ciò che potrebbero pensare gli altri: che magari ho fatto il passo più lungo della gamba, che sono arrogante, che sono incosciente, che sono ridicola nel pensare che potrei realizzare il mio desiderio…
Tutto questo solo nel pensare ad un eventuale desiderio. Ed ho capito perché tante persone li prendono – i propri desideri – e non solo li mettono in un cassetto, ma poi questo lo chiudono a doppia mandata e buttano via la chiave.
Paradossalmente sembra che la felicità più la si cerca, meno la si trova…e ovviamente più una persona non si pone il problema sull’essere o non essere felice, migliori sono le sue possibilità di esserlo, lo dicono le ricerche. È un po’ una profezia che si auto-avvera: più cerchi di evitare che accada qualcosa, più le tue scelte, progressivamente, ti spingono verso ciò che tanto fuggi.
Mi sono chiesta cosa attivasse la mia paura. Era l’incertezza, non sapere come sarebbe andata a finire, non sapere se in caso di caduta il mio trapezista interiore avrebbe trovato una rete ad accoglierlo.
Annamaria Testa in un suo mini-saggio sull’argomento suggerisce che questo impasse si può affrontare in tanti modi, il migliore dei quali è accettare l’incertezza: avere una flessibilità adattiva e cercare di tirar fuori qualcosa di positivo anche dalle situazioni negative.
Ok. cosa potevo trarne io? Come prima cosa, ho svincolato la felicità dai desideri. E poi ho capito che è una specie di “condizione dell’anima”, un modo di vivere e vedere la vita, non qualcosa che si raggiunge ad un certo punto, dopo aver realizzato qualcosa.
Va bene avere dei desideri da realizzare, mettere delle azioni in tal senso, guardarsi dentro e chiedersi cosa rappresenta davvero quell’obiettivo per noi e cosa possiamo fare per gestire eventuali feedback negativi ‘dall’universo’ (quando sembra che quella cosa proprio non si realizzerà).
Ma la felicità, forse, è lo stato d’animo che sperimentiamo a prescindere da ciò che va e ciò che non va. È qualcosa che costruiamo giorno per giorno, un passo alla volta e cercando di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. O, come mi hanno fatto notare, cercando di dare il massimo con qualunque cosa ci ritroviamo nel bicchiere.
E questa scoperta non mi è parsa una cosetta da niente.
Bibliografia
Annamaria Testa, Il coltellino svizzero, Garzanti, Milano 2020
da Simona Rosati | Mag 20, 2020 | Ansia, Attacchi di Panico, Blog, Depressione, Incertezze sentimentali, Psicoterapia di coppia, Psicoterapia Individuale
Gli ultimi mesi, citando un film a me caro, sono stati prodighi di emozioni.
Finora ho sempre lavorato molto ‘da sola’ e più di 6 mesi fa ho iniziato una collaborazione con una società di consulenza (https://www.bottegafilosofica.net/ ). Mi piaceva la filosofia che respiravo in quella società, volevo far parte di quel team e decisamente volevo sfidarmi su qualcosa di nuovo, quindi quando mi è stato chiesto se ero disponibile per dei moduli di formazione fuori Roma, ho detto subito di sì, senza pensare, perché se avessi pensato sarebbe salita un po’ di fifa e avrei detto di no.
I moduli di formazione sarebbero stati a Bolzano, a 650km da casa, ed io non mi spostavo per lavoro dalla provincia di Roma da prima di avere mio figlio che adesso sta finendo la terza elementare… Ho detto di sì e già tornando a casa ero in modalità “mamma mia, ma come m’è venuto in mente?!”. Sono passati un po’ di mesi ed una parte di me era disperata: sotto sotto pregavo che la cosa non andasse in porto, che nonostante tutto tra me e l’Alto Adige restassero tutti quei km…io sarei anche andata, ma ops… purtroppo i corsi non erano partiti. Un’altra parte di me, invece, era contenta all’idea di passare giornate intere lontana da casa e sperimentarmi di nuovo in modalità solo professionale, togliendo momentaneamente i ruoli operativi di moglie e mamma.
Beh, i corsi sono stati posticipati di un paio di mesi, ma alla fine è arrivato il momento di partire.
Tralascio il pathos della mattina della partenza per decenza, posso solo dire che quando ho salutato marito e figlio e mi sono avviata da sola verso il treno…mi sono sentita leggera, come se un orologio dentro di me fosse tornato indietro nel tempo, a quando partivo senza grandi remore e senza nessuno che attendesse il mio ritorno a casa.
In tutto ciò, alla mia lontananza fisica da casa si è unita un’altra dinamica inerente Bolzano, sempre su questo tema. In un corso di formazione mi sono occupata dell’orientamento professionale delle partecipanti.
Appena mi hanno visto, ognuna in modo individuale, ho percepito una specie di barriera. “Perchè sono qui? Perché devo parlare con una psicologa? Non c’è nulla che non vada in me”. Non per tutte, per carità, ma per 2/3 di loro è andata così. All’inizio sembravano sedute su sedie di spine e attendevano che quell’ora passasse il più rapidamente possibile. Alcune guardavano costantemente altrove, altre mi dicevano che quel colloquio per loro era inutile, altre ancora apparentemente non la smettevano di parlare-parlare-parlare ma avevo la netta sensazione che non mi stessero raccontando nulla di sé: quelle parole avevano solo la funzione di riempire lo spazio (ed il tempo) tra me e loro, mettendo una barriera. Un muro di parole.
Le distanze relazionali, inutile dirlo, sono il mio pane quotidiano. Sono croce e delizia nelle relazioni umane e tra un avvicinamento ed un allontanamento formano la coreografia di una danza. E in questo tanto girare e volteggiare, tra tanti vai e vieni, l’obiettivo è trovare la posizione in cui non ci si sente né lasciati soli, né invasi. Facile, no? No. Per niente. Ognuno può avere i suoi motivi per avvicinarsi e allontanarsi, e non è una questione che si risolve col metro come per le file al supermercato ai tempi del Coronavirus.
E’ un continuo prendere le distanze tra sé e gli altri (o tra sé e un’altra persona in particolare, soprattutto se questa è legata a particolari emozioni vissute come non lecite) per capire quando e se ci si può sentire ok. Ma soprattutto può esserci un prendere le distanze tra sé e i propri stati interiori, che possono essere vissuti come dolorosi o fonti di conflitto:“…che faccio? Prendo consapevolezza di questa cosa o faccio finta di niente? Provo ad allontanarmi…se sono lontano non vedo, è un po’ come non sentire, e se non sento non c’è nulla di sbagliato in ciò che faccio, ciò che sono, ciò che sento”.
Perché facciamo così? Per proteggere la nostra identità, quando percepiamo che alcuni suoi aspetti ci potrebbero rendere fragili. Perché abbiamo paura del contatto (anche metaforico) con l’altro, abbiamo paura di non riuscire a gestire l’essere toccati emotivamente, più che fisicamente. Abbiamo paura che gli altri abbiamo su di noi aspettative irrealizzabili, o che gli altri deludano le nostre. Abbiamo paura del giudizio – nostro e altrui – e , dell’idea che ci facciamo sulle conseguenze nella riduzione o nell’aumento di questa distanza.
E la danza tra avvicinamenti e allontanamenti serve per gestire tutta questa paura, questo bisogno di essere in relazione… ma non troppo, quanto basta.
Ovviamente sono abituata a gestire il disagio delle persone che mi parlano per la prima volta a livello professionale. Ho accettato questo loro atteggiamento e cercato di metterle il più possibile a loro agio, rassicurandole sulla natura dei nostri rapporti e mostrando loro che ero (sono 😉 ) una persona normalissima.
Ho avuto puro entusiasmo nel conoscerle e raccontato simpaticamente la mia difficoltà nell’esser lì in quel momento, così lontana da casa e dai miei affetti. E credo che questo abbia funzionato nel ridurre le distanze: si sono aperte, consentendomi di conoscere le loro storie e capire quali fossero i loro punti di forza…e spesso la fine dell’ora è giunta quasi a tradimento.
I frutti di questa mia riduzione delle distanze li ho trovati 2 settimane fa, quando abbiamo avuto il secondo giro di incontri, questa volta via internet visto che non possiamo ancora re-incontrarci di persona spostandoci tra regioni. Il cambiamento mi ha stupito. Siamo passate da “Ma dobbiamo proprio vederci?” ad “Aspettavo questo appuntamento, ne avremo tanti altri, vero?”.
E’ stato lì che ho capito che avevo ridotto le distanze… raccontando della MIA distanza temporanea rispetto alla mia famiglia (ho anche aggiunto che ogni tanto non occuparmi di alcune incombenze poteva essere mooooolto interessante ;-P ).
Ma torniamo a noi e al mio viaggio verso l’ignoto e profondo nord. Solo alla seconda partenza sono riuscita ad arrivare fino a Bolzano ed ho scoperto che andare è stata un’ottima scelta. Ho conosciuto delle belle persone, la cittadina è molto carina e sono riuscita a portare avanti il mio lavoro senza problemi. Ma soprattutto ho scoperto che ce la potevo fare, anche non proprio dietro l’angolo e non supportata dall’idea di tornare a casa a fine giornata.
…quindi se la vita ci offre musica, è il caso di danzare. Potrebbe essere davvero bello!
da Simona Rosati | Dic 13, 2018 | Ansia, Depressione, Psicoterapia di coppia, Psicoterapia di Famiglia, Psicoterapia Individuale
Le feste in famiglia, se non emergono grandi problemi, creano risorse profonde dentro i bambini. In queste ricorrenze si può sperimentare un grande calore che in seguito verrà associato in futuro allo stesso periodo o a situazioni simili. L’essere umano prova angoscia al pensiero di essere abbandonato, soprattutto da piccolo. Vedere riuniti familiari ed amici dà una bella sensazione al bambino: se dovesse accadere qualcosa ai genitori, c’è lì qualcuno che potrebbe accoglierlo e prendersi cura di lui. E questa sensazione, soprattutto se l’esperienza si ripeterà, andrà a formare un nucleo di fiducia all’interno del bambino che lo aiuterà una volta divenuto adulto.
Stefi Pedersen, una psicoanalista, nella Seconda Guerra Mondiale condusse dei bambini ebrei in una traversata delle alpi che separano la Norvegia dalla Svezia, in inverno, per salvarli dalla deportazione. Una situazione non facile. I bambini erano arrivati in Norvegia da altre zone dell’Europa, erano profughi, quindi sapevano già come comportarsi e cosa fare: portare soltanto l’essenziale, uno zaino col cibo necessario per arrivare fino a destinazione e per vestiti solo quelli che indossavano.
Arrivati in Svezia, la Pedersen notò una cosa singolare: in fondo agli zaini, ormai vuoti, ognuno aveva qualcos’altro. Non erano oggetti preziosi, erano semplici decorazioni dell’albero di Natale, alcune fatte di cartone e stagnola (erano ebrei non praticanti, Natale per loro era una festa della famiglia, senza implicazioni religiose).
Possibile che bambini già abituati a lasciare tante cose dietro di sé, per dare la precedenza all’essenziale, avessero scelto di portarsi dietro oggetti simili? Sì. Quegli oggetti parlavano loro di momenti in cui si erano sentiti felici e al sicuro, erano la rappresentazione dei momenti buoni della vita, e davano loro la speranza che altrove, pur non sapendo ancora dove, avrebbero avuto altri alberi di Natale ad attenderli, altri momenti buoni. Erano ricordi che li avrebbero aiutati ad attraversare le avversità della vita con fiducia.
Ovviamente, è altrettanto vero il contrario: se in queste occasioni sono state sperimentate perdita, solitudine o frustrazione, sarà più probabile che da adulti si assoceranno queste ricorrenze a malinconia ed angoscia, una sorta di “depressione da evento” che riporterà a galla antiche ferite. E tornerà la paura di essere presenze non gradite.
Adesso veniamo a noi. Siamo adulti. Comunque siano stati i nostri Natali passati, siamo sopravvissuti abbastanza bene, almeno fisicamente, e siamo lontani da guerre. Cosa dovrebbe preoccuparci in questo periodo? Nulla, a parte le vacanze in cui affrontare clan familiari con cui non a caso di solito non interagiamo.
Cosa si può fare? Si parte per un paese lontano o si simula un malore? La fuga è sempre una soluzione, ma a lungo andare può essere stancante. Qualora si scelga di non fuggire, ecco alcuni spunti di riflessione o dritte per arrivare meno ammaccati possibile fino all’Epifania:
- Ascoltarsi bene per capire cosa si vuole, e, qualunque strategia si scelga di portare avanti, capire perchè e per chi lo si fa. Con una maggiore consapevolezza, le situazioni si affrontano in modo diverso: si sceglie in modo attivo e non si subisce ciò che ci accade.
- Ricordare che anche se i nostri parenti più o meno acquisiti non hanno modi che si sposano alla perfezione con il nostro sentire… quello è il loro modo di fare consueto, e non qualcosa di dedicato a noi. Noi inciampiamo in ciò che per loro è un normale modo porsi all’altro.
- Giocare d’anticipo con ironia: all’inizio del pranzo/cena si può prendere la parola per dire “Quest’anno sono ancora single, no, non cè nessun bambino in arrivo, la mia carriera è ancora ben lontana dall’esser definita brillante, vivo ancora nella casa dell’anno scorso, e come tutti possono notare non ho fatto alcuna dieta dimagrante. Quindi attenzione perché potreste dirmi le stesse cose dell’anno scorso (e come l’anno scorso non ascolterei i vostri mille consigli)”. Per agevolare gli scambi, potete suggerire eventi o situazioni nuove su cui potreste dilungarvi piacevolmente con racconti epici.
- Se proprio critiche ed interrogatori si fanno pressanti e non avete giocato d’anticipo, potete sempre:
– elargire sguardi eloquenti;
– spiegare tranquillamente ciò che si prova e che può essere frustrante subire un interrogatorio su alcuni aspetti della propria vita;
– convogliare l’attenzione su qualcos’altro di interessante che vi è accaduto;
– coinvolgere nella conversazione qualcuno che possa spalleggiarvi (questo essere umano c’è sempre da qualche parte) - Per arrivare in fondo alle giornate (nel caso si sia lontani da casa propria e non ci sia la possibilità di afferrare la valigia dopo il pasto pantagruelico) ci si può (deve) distrarre con boccate d’ossigeno più o meno metaforico:
– fare telefonate agli amici per commentare e sdrammatizzare il mal comune dei clan familiari;
– ritagliarsi del tempo per sé per andare in giro e chiacchierare con gente amica
Voi cosa farete? Come andranno le vacanze?
Io, intanto, sul mio albero di Natale ho già puntato una renna dipinta dalla inconfondibile mano espressionista di mio figlio. La metterò in valigia come buon auspicio sugli incontri, sull’autenticità nei rapporti umani e sulla buona digestione di tutto ciò che mangerò.
Bibliografia:
Bruno Bettelheim, Un genitore quasi perfetto, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1987.
da Simona Rosati | Nov 24, 2018 | Blog, Psicoterapia, Psicoterapia di coppia
Nelle coppie, chi più, chi meno, si tende tutti verso un ipotetico bilanciamento ideale di diritti e doveri (o almeno sarebbe carino tutti ci provassero). E ogni volta non si sa mai da che parte penderà l’ago della bilancia.
Quest’estate siamo stati in vacanza dalle mie parti in Abruzzo, sulla costa. Tanto per capirci, è il tipo di vacanza che mio marito detesta, ma si fa piacere perchè nostro figlio adora il mare.
Ad un certo punto mio marito ha fatto l’immancabile proposta di passeggiata in montagna: voleva vedere una cascata e per par condicio non si poteva dire di no.
Per arrivare alla suddetta fonte idrica, c’era un percorso definito “per famiglie”, quindi fattibile… col senno di poi, ho tanto la sensazione fosse per famiglie di camosci.
Dopo i primi 15 minuti la pendenza ha iniziato a farsi sentire ed il sentiero ha iniziato a riempirsi di roccia, tanto che in certi punti non si camminava più normalmente, ma si saliva appoggiando anche le mani a terra o tenendosi ai tronchi degli alberi.
Un altro po’ e mio marito ha iniziato a fermarsi e dire “Vabbè, se non ce la fate, lasciamo perdere”. Io ho guardato il bambino, che ce la faceva, valutato il mio stato di stanchezza e, nonostante dentro di me avessi un bradipo che si sbracciava come un naufrago su un’isola deserta al passaggio di una nave, ho insistito per continuare ad andare avanti.
Volevo sfidare la mia proverbiale pigrizia? Avevo un attimo di masochismo? Volevo far contento mio marito? Evitare le sue solite recriminazioni? Non lo so, un po’ tutto questo mescolato insieme. Continuavamo a camminare in silenzio, per risparmiare fiato ed energie, e, mentre mi chiedevo dove finisse la voglia di superare un mio limite e iniziasse l’andare al massacro, il mio umore andava via via scurendosi.
Ogni tanto mio marito continuava a dire “Vabbè, dai, torniamo indietro”, ma noi, io e mio figlio, andavamo avanti…finchè, dopo un’ora e mezza di sentieri, non ci siamo bloccati: abbiamo sentito un tuono, in un attimo io e mio marito ci siamo scambiati uno sguardo eloquente ed abbiamo fatto dietro front.
Tornando indietro il mio umore e le mie energie sono tornate a posto. Ci abbiamo provato, non è andata, ma non è stata colpa mia. Mio marito mi ha chiesto perchè non volessi tornare indietro ed io, che sono psicoterapeuta ma anche un essere umano come tanti altri, gli ho detto chiaramente che volevo farlo contento ed evitare che poi mi rinfacciasse di non avergli concesso la passeggiata in montagna.
E qui mi fermo un attimo e colgo la palla al balzo per parlare di due aspetti della comunicazione.
Il primo è la punteggiatura. Nelle interazioni a due ciò che fa uno può essere (è) contemporaneamente reazione a qualcosa e stimolo per una ulteriore reazione dell’altro, che a sua volta, in un ciclo ipoteticamente infinito, diventa un nuovo stimolo per una nuova reazione del primo. In base al modo in cui dividiamo e mettiamo l’accento su una piccola sequenza di questo processo, decidiamo in un certo senso “di chi è la colpa” se le cose vanno male (di solito dell’altro…noi siamo “innocenti” e stiamo solo rispondendo a, o difendendoci da, ciò che ci manda l’altro). In ogni momento, comunque, ognuno può decidere cosa fare: se continuare la sequenza o no.
Io avrei potuto insistere sul fatto, accaduto già altre volte, che poi lui avrebbe recriminato. Ma ho scelto di non farlo. Tutto sommato non è detto che ciò che è già accaduto debba per forza ripetersi.
Il secondo aspetto è la metacomunicazione, ossia il comunicare su ciò che accade in un processo di comunicazione, a livello più profondo. La comunicazione è costituita sempre da due parti, una che riguarda il contenuto, le informazioni che passano da una persona all’altra, ed una che riguarda la relazione che c’è tra le persone e come vanno interpretate le informazioni che sono state passate. L’aspetto di relazione definisce che tipo di legame c’è tra le persone e indirettamente serve a definire se stessi.
Cosa è successo in questo caso, tra i sentieri di montagna? Abbiamo iniziato a parlare di ciò che credevo io e ciò che si aspettava lui, della mia sensazione che quella vacanza non fosse molto distensiva per lui, sia per il mare, sia per il full immersion con la mia famiglia d’origine. Io mi sentivo in difetto con lui e cercavo di renderlo contento in un modo che poco aveva a che fare con la mia idea di vacanza… e questo mi rovinava l’umore. Tutto questo è accaduto dentro di me, senza che ne fossi cosciente, e avrebbe potuto sfociare in una discussione potenzialmente infinita.
Lui come ha risposto alla mia sincerità? Tranquillo e sereno, un po’ stupito, mi ha detto che in realtà andare al mare non era poi tanto male e che gli bastava essere stati un pomeriggio tra i boschi per dirsi che si era fatto un po’ di vacanza in montagna. Non mi avrebbe detto nulla se avessimo rinunciato prima al percorso, ed effettivamente sono passati mesi e non mi ha rinfacciato alcunchè.
Tornando a casa ho pensato a quante volte nella vita facciamo degli errori di valutazione, diamo per scontati i desideri, le intenzioni degli altri, portiamo avanti qualcosa trascinandoci e manifestando rancore e poi… poi gli altri avevano altri desideri ed altre intenzioni e tutta la nostra fatica poteva essere evitata.
Per ora solo una cosa è certa: non siamo arrivati fino alla cascata e l’anno prossimo ci sarà il rischio di riavere in ballo l’obiettivo non conseguito. Vabbè, l’anno prossimo vedremo cosa succederà e in quali itinerari dovrò traghettare il mio bradipo interiore.
Bibiografia
P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Casa Editrice Astrolabio, 1971.
da Simona Rosati | Mar 29, 2018 | Blog, Consulenze, Neogenitorialità, Psicoterapia, Psicoterapia di coppia, Psicoterapia di Famiglia
Al di là del romanticismo, due persone si mettono insieme per stare bene e imparare qualcosa l’uno dall’altro, ma una volta consolidato il legame, in modo più o meno consapevole ognuno comincia a preoccuparsi della lealtà nei confronti della propria famiglia d’origine.
Quella lealtà è un modo per riconoscere se stesso all’interno del contesto in cui si è cresciuti e può dar luogo ad un conflitto: da un lato ognuno cerca di apportare cambiamenti terapeutici alla propria famiglia d’origine, ma allo stesso tempo cerca di mantenervisi leale, fedele, e da qui possono derivare difficoltà all’interno della coppia.
A volte già è difficile stare in due e se arriva un figlio… la situazione si complica ulteriormente.
Nella coppia ci sarà da un lato lei, coi suoi sensi di colpa per esser completamente concentrata in una relazione esclusiva col bambino (spesso già dalla gravidanza) e la rabbia per la stanchezza ed il peso delle incombenze che sente su di sé, e dall’altro lui, con la sua sensazione di essere messo da parte e di essere l’unico a sostenere la situazione economica.
Se a tutto questo si aggiungono le famiglie d’origine attirate dall’emozione e dalla gestione del piccolo, il cerchio del caos arriva alla perfetta chiusura.
Cosa fare? E’ possibile trovare soluzioni che lascino tutti ragionevolmente soddisfatti?
Ogni situazione è unica, ma esistono delle buone prassi che possono allentare il conflitto e portare ad un nuovo assetto di coppia, più funzionale.
Eccone alcune.
– Abbandonare l’idea di poter essere partner e genitori perfetti. Si è quel che si è, e si cerca di fare del proprio meglio. Non c’è da fustigarsi se le cose non girano in modo perfetto. La soluzione migliore è togliere spazio alle recriminazioni e cercare di esternare il proprio vissuto per essere compresi e comprendere autenticamente l’altro.
– Non fare confronti con gli altri, la loro vita e la loro gestione della vita a tre. Ognuno (ed ogni coppia, ogni famiglia) è unico. Si può cercare di comprendere quali sono i punti virtuosi delle altre coppie, ma ricordare sempre che ognuno porta con sé il suo carattere, il suo modo di vedere la vita, la sua educazione e le sue esperienze. Ciò che può funzionare perfettamente per qualcuno, può essere una soluzione ‘stretta’ per altri. Meglio trovare la propria strada, procedendo per prove ed errori, che ricalcare i passi di qualcun altro senza sapere bene dove condurranno.
– Il senso di colpa è inutile se fine a se stesso. C’è un problema? Ok, cosa si può fare adesso? Cosa ha portato a quel problema? Cosa si può fare per risolverlo? Come evitare che si ripresenti? Meglio trovare soluzioni condivise, che soddisfino la coppia ed il bambino. Chi non si sente rappresentato in una scelta, può boicottare più o meno consapevolmente il buon esito della stessa, quindi meglio impiegare più tempo, valutare bene tutti i punti di vista e dare/avere la giusta rilevanza all’interno del processo decisionale. Si può partire lesti in una direzione e fermarsi, rifermarsi, cambiare strada, tornare indietro, procedere in tondo e ritrovarsi al punto di partenza stanchi, scoraggiati e rancorosi l’un con l’altro.
– Ri-conoscersi come coppia. Se il processo di lealtà nei confronti della propria famiglia di origine entra in conflitto con la nuova realtà di coppia e ancor più con la gestione del bambino, c’è la sensazione di stare con qualcuno di diverso dalla persona con cui si era deciso di stare insieme. Non si è più quelli di prima, ma non è detto che si sia peggiorati, anzi. Cercare di ri-presentarsi, ri-parlare di se stessi per dire all’altro come si è, e ri-cercare di sentire il cuore dell’altro e fare squadra. Parlare liberamente di cosa si prova e come ci ci sente, senza opprimersi e cercando di capire cosa prova e come si sente l’altro/a. Si fa parte di una squadra, ed occorre essere presenti ed uniti: per funzionare bene bisogna capire quali sono le risorse di ognuno e dove si è (come un giocatore che in campo fa mente locale, mentre il gioco va, su chi è dove e come può passargli la palla o tirarlo fuori d’impaccio e recuperare la palla).
– Tener fuori le famiglie d’origine dalle decisioni riguardanti la coppia e quelle sulla gestione del bimbo. Se chiunque può arrivare e dire la propria (o peggio ancora, agire di sua iniziativa) si creano confusione, ansia, sensazione di essere scavalcati e rancore. Benvengano gli aiuti ed i consigli richiesti e costruttivi, ma attenzione a non lasciare troppo spazio (il vostro).